La celebre e apprezzata vignettista del settimanale L’Espresso, graphic journalist, illustrAutrice e attivista femminista italiana Stefania Spanò, in arte Anarkikka, sarà la protagonista de ‘Il tea con l’autore’, oggi pomeriggio alle 16:30, nella sala piccola del Centro Sociale Incontro. Presenterà il suo libro ‘Non chiamatelo Raptus’ (People) in cui esplora la violenza sulle donne e altre forme di violenza di genere. Attraverso le sue accattivanti e colorate illustrazioni, Anarkikka propone in ogni pagina una profonda riflessione sulla violenza di genere estesa a molti ambiti dell’universo femminile.
Stefania ci ha concesso un’intervista in anteprima e le abbiamo fatto alcune domande, per conoscerla meglio, alle quali ha dato risposte esaustive e, a volte, ironiche…
La prima domanda sarà forse per te banale e chissà quante volte te l’hanno fatta: da dove nasce il tuo nome d’arte ‘Anarkikka’?
Il nome Anarkikka era il soprannome di mia figlia Francesca (Kikka) a cui la personaggia inizialmente s’ispirava. Col tempo, diventando la mia voce, Anarkikka ha finito coll’essere identificata con me, col mio attivismo.
Quando hai scoperto questa tua vena artistica che ti ha portato a farne il tuo lavoro?
L’ho scoperta per caso. La personaggia nasce per farne un fumetto, ma ha “naturalmente” preso un’altra strada. E ho scoperto il mio talento con le parole, l’ironia.
La prefazione del libro è stata fatta dall’eminente sociolinguista Vera Gheno: piuttosto singolare, ma molto bello e interessante, che una docente e scrittrice di parole ‘legga’ e interpreti il tuo linguaggio tramite immagini…
Ci lega l’attivismo, il femminismo e la comunicazione. Entrambe sappiamo quanto le parole abbiano un peso nell’informare ma anche nel “formare”. Sappiamo quanto sia importante, per questo, usare quelle corrette, giuste.
Nel corso degli anni, oltre a collaborare con il blog de L’Espresso, sei stata autrice, a parte il libro che presenterai a San Bartolomeo al mare, ‘Non chiamatelo raptus’, di un altro importante volume come ‘Smettetela di farci la festa’ e hai illustrato la copertina di quello di Michela Murgia ‘Stai zitta: e altre nove frasi che non vogliamo sentire piú’, crei e curi campagne sociali per associazioni ed enti, campagne di responsabilità sociale per aziende, eventi e speech… tutte attività rivolte a sensibilizzare su molte tematiche sociali, appunto: potremmo definirti in modo affettuoso una Giovanna d’Arco della matita pungente? O come meglio ti auto-definiresti?
Vista la fine di Giovanna, spero di no! Non amo definirmi, in realtà. Lo lascio fare a chi ne ha voglia. Io ho solo la fortuna di fare ciò che amo per ciò in cui credo.
Nel libro che presenterai, in ogni pagina proponi frasi e immagini relative a molte e diverse forme di violenza esercitate nei confronti delle donne… alcune più note al pubblico, altre meno, come per esempio la violenza ostetrica, come ci sei arrivata? E di cosa si tratta esattamente?
Di violenza ostetrica si discute da tempo, solo che è un grosso tabù. Per fortuna oggi sta emergendo, vede la luce. Un po’ come un parto, appunto. Credo sia un argomento difficile perché è violenza spesso agita da altre donne. E questo spiazza, oltre a far molto male. Il problema è quella cultura che ci vuole madri a ogni costo, che ci vuole pronte alla sofferenza, al sacrificio, senza spazio per dolore, dubbi, impreparazione. È la nostra croce, da portare in silenzio.
Una parte molto importante, a cui sono molto sensibile in quanto giornalista e donna, è dedicata al linguaggio dell’informazione, non sempre eticamente corretto: quanto pensi sia importante nella comunicazione dei sanguinosi fatti di cronaca inerenti la violenza sulle donne? E ritieni che a volte le immagini, come quelle che tu crei, possano essere più efficaci della parola scritta o pronunciata?
Le immagini aiutano ad attirare lo sguardo. Poi devi leggere, sono sempre le parole a concludere una comunicazione. Una vignetta fa proprio questo. Ma funge da sprone, deve accendere il dubbio, dopo devi avere la voglia di approfondire. Io ho iniziato questo percorso interessandomi proprio al linguaggio usato dai media nel raccontare la violenza maschile. Era (e ancora spesso “è”) palesemente scorretto, disinformava veicolando esattamente quegli stereotipi che la violenza la alimentano. I media sono lo specchio della nostra cultura, potrebbero aiutare il cambiamento se smettessero di essere specchio per farsi lavagna.
Ultima domanda: da decenni, ormai, la violenza è quasi cronaca quotidiana. Quanto pensi sia motivata dalla maggiore capillare informazione rispetto al passato e quanto pensi che questi fatti godano proprio, grazie a questa, di una cassa di risonanza che porta gli uomini e reiterare questi crimini? Pensi che in passato fosse lo stesso e non se ne parlasse per un certo senso di omertà e pudore familiare oppure che questi tempo abbiano portato a un aumento di questi episodi? Che si potrebbe fare di più?
La violenza sulle donne era legittimata fino a pochi anni fa ma non basta a spiegare come sia diventata fatto quotidiano, soprattutto quando parliamo di femminicidio. La violenza domestica è uscita dalle mura, e questo ha permesso di “contarci” e scoprire il fenomeno, le donne oggi denunciano gli abusi, ma l’assassinio di una donna in quanto donna aumenta da quando le donne rivendicano il loro diritto a esistere e a scegliere della loro vita. È, ahimè, una risposta alla libertà delle donne.
Chi vorrà incontrarla personalmente e porle altre domande, la potrà incontrare oggi, tra un biscottino e un tea!
*Coordinatrice letteraria della rassegna ‘Il tea con l’autore’ di San Bartolomeo al Mare














