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Attualità | 31 marzo 2020, 07:11

Coronavirus, è tornato a casa il dipendente della Croce Bianca di Imperia Davide Marino: "Ancora non ci credo, esperienza segnante"

"Vedevo persone che un giorno respiravano bene e il giorno dopo avevano bisogno dell'ossigeno. I medici erano distaccati, ma poi ho capito: non erano freddi, ma solo molto metodici". La nostra intervista al milite positivo al coronavirus, che è tornato a casa

Coronavirus, è tornato a casa il dipendente della Croce Bianca di Imperia Davide Marino: "Ancora non ci credo, esperienza segnante"

Dopo circa due settimane di ricovero al Borea di Sanremo, Davide Marino, il dipendente della Croce Bianca di Imperia risultato positivo al coronavirus, è potuto tornare a casa. Da ieri pomeriggio, scortato proprio da una delle ambulanze della pubblica assistenza per cui presta servizio, ha abbandonato l'ospedale e si trova adesso tra le mura domestiche, un ambiente decisamente più confortante della sua stanza nelle ultime settimane.

Ieri lo abbiamo contattato, per farci raccontare la sua esperienza: sono rientrato poco fa, ancora non realizzo che sia finita. Non auguro a nessuno quello che mi è capitato, spero che questo virus se ne vada e non torni in nessuna forma. Ho visto persone conosciute, anche in ambito sanitario, che si sono ammalate, alcune se ne sono andate”.

Come stai adesso? Bene, non ho febbre, non ho affanno, né problemi respiratori. Il recupero però sarà abbastanza lungo, bisogna pianificarlo, verrò monitorato dall’Asl più volte al giorno, dovrò fare le controanalisi per stabilire se mi sono negativizzato. L’importante comunque è stabilizzare la situazione”.

Hai ricostruito come possa essere avvenuto il contagio? Buona parte dell’esposizione è dovuta certamente al mio lavoro, essendo in prima linea soprattutto a bordo dei mezzi dedicati al covid. Tuttavia il contagio può essere benissimo avvenuto durante una commissione, facendo la spesa o andando in farmacia. Purtroppo non sai se la persona accanto a te è positiva o meno, per cui non è possibile stabilirlo con certezza”.

Come te ne sei accorto? Dopo aver smontato da un turno di notte, ho iniziato ad avere brividi, debolezza, febbre e spossatezza. Avevo tosse secca già da qualche giorno, così sono andato al pronto soccorso a farmi controllare. Lì mi hanno fatto una lastra, le analisi ed è uscita fuori una polmonite. Dopodiché mi hanno fatto il primo tampone. In attesa dei risultati ho passato due giorni in un reparto dell’ospedale di Imperia dove si trovano i casi sospetti di covid, poi sono stato portato al Borea, da giovedì di due settimane fa fino a oggi”.

Raccontaci com’è andata: Pensavo sinceramente che sarebbe stato più semplice, ma si è rivelato un’odissea. Una delle cose che maggiormente mi hanno colpito è che da come mi sentivo fisicamente a come mi descrivevano i medici sentivo un solco. Però mi sono reso conto dei pazienti attorno a me cambiavano il loro stato di salute da un giorno all’altro, ho visto persone che non avevano bisogno dell’ossigeno quando sono entrati, che lo avevano il giorno dopo. E ho visto un tasso di mortalità spaventoso. Nella mia stanza, ricordo che non sono mai stato in terapia intensiva, su quattro che eravamo, nessuno aveva l’ossigeno quando sono entrato, mentre oggi ero l’unico a non averne bisogno. Da dentro il reparto però non ci comunicavano la situazione, e per noi era praticamente impossibile anche solo uscire dalle nostre stanze, per cui l’attività si riduceva a passeggiare tra il letto e la finestra, e chi aveva l’ossigeno neanche quello, perché l’ossigeno va tenuto sempre”.

Com’era l’umore all’interno del reparto? Chi lavorava si faceva non uno, ma tre mazzi. Personalmente l’umore era basso anche perché, nonostante siano vent’anni che lavoro nella sanità, non riconoscevo nessuno di medici e infermieri, bardati con tutone e occhialoni com’erano, e questo già è brutto. Oltretutto avevano reclutato personale di vari reparti e varie corsie, per cui capitava che neppure i sanitari si conoscessero tra di loro. Negli ultimi giorni dietro ai camici avevano scritto i loro nomi, come i calciatori, così almeno potevi riconoscere chi ti stava accanto”.

Il distacco ti ha colpito? Colpito e snervato, soprattutto all’inizio. Non c’erano contatti nel giro visite. Poi ho capito che era dovuto al fatto che i sanitari svolgono un preziosismo lavoro d’equipe. Gli anestesisti lavorano insieme a pneumologi, virologi e rianimatori. Insieme confrontano i dati strumentali scientifici, e il rapporto umano mancava perché non avrebbero saputo sbilanciarsi sulle condizioni di salute dei pazienti. Non erano freddi, ma solo molto metodici”.

Che tipo di terapia ti hanno somministrato? “All’inizio una terapia massiccia di pastiglie. Erano tante: quattro, cinque, sei per più volte al giorno, fino a una al giorno, l’ultima oggi. (ieri ndr) Poi tanta terapia endovenosa. Non so dire di che farmaci si trattasse, qualcosa per fluidificare il muco e abbassare la febbre”.

Hai avuto paura? “Paura no, sono partito prendendola in una certa maniera. Ho detto: ci vorrà tempo, non pensavo tutto questo tempo, ma poco dopo mi è scattata la molla che il tempo fosse necessario. Ho cercato di leggere meno notizie possibili, evitando le fake news. Credo che in questo momento più che mai bisogna distendere il clima. Mi sono concentrato sulla mia situazione, sugli effetti della malattia sul mio corpo. I primi giorni non sai dove cercare conforto, ho ricevuto tanto aiuto da chi mi ha scritto, da chi mi ha mandato messaggi, dimostrandomi grandissimo affetto e vicinanza. Quello ti tiene impegnato, poi la giornata si scandisce con gli esercizi di respirazione”.

Che tipo di esercizi? “Riguardano prima di tutto la posizione. Contrariamente a quanto si fa di solito per chi non respira bene, che si tende a far mettere semi seduto, in questo caso la posizione migliore è stare proni, a pancia sotto. Così si aiuta la capacità della saturazione. Ci sono esercizi come le apnee cadenzate, da ripetere più volte al giorno, dalla mezz’ora in su. Chi non può restare a lungo prono, per problemi alla schiena, può alternare la posizione girandosi sui fianchi, l’importante  stare il meno possibile supini”.

Hai avuto paura di aver contagiato i tuoi cari? “Ho una compagna, certo ero preoccupato per lei. La distanza non ha aiutato, non mi trovavo in un reparto normale, non era una semplice degenza in ospedale, dove si hanno le due, tre ore al giorno di visite. Eravamo in una stanza senza tv. Ho usato molto il telefono, anche per le videochiamate”.

Da dipendente della Croce Bianca conosci la situazione relativa ai dispositivi di protezione individuale. Vuoi parlarcene? “Certo, prima di tutto bisogna dire che servono, non c’è spreco, ma la mancanza è un problema serissimo, e mi chiedo come sia possibile non averli per chi lavora in ambito sanitario. Aggiungo che si è fatta confusione, perché c’è chi ancora non ha capito che le mascherine chirurgiche servono ai pazienti, mentre le ffp2 e ffp3 servono al personale sanitario, perché filtrano aria all’interno. Io oggi indosso la mascherina chirurgica, anche a casa, dove ho preso tutte le precauzioni per la mia quarantena, come l’igienizzazione dei sanitari, per evitare di diffondere il contagio”.

Francesco Li Noce

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